Linee e frecce. Il lavoro di Daniel Libeskind

Libeskind è un architetto di nuovo stampo. Vive dentro più culture, più storie, più discipline. Si avvicina all’architettura dalla musica e dall’arte e si forma in quella fucina che è la Cooper Union di New York. Città dove intesse una profonda, anche se poi interrotta, relazione con Peter Eisenman da cui assorbirà più di un tema durante i suoi primi anni di lavoro.

Nato nel 1946 nella devastata Polonia dall’unione di due genitori profughi dei campi di sterminio, Libeskind ha studiato in Israele musica per poi passare, appunto, alla Cooper Union di John Hejduk, una facoltà di élite in cui si accede con borse basate sulla qualità e non sul censo e dove è proprio la provenienza da altri campi e discipline che è considerata il valore fondamentale per una preparazione che cerca la profondità. Ma Libeskind dopo la scuola di architettura indaga ancora altri settori e si specializza in Storia e in Filosofia all’università inglese dell’Essex. Per buona parte degli anni ottanta intreccia percorsi e discorsi e lo fa nei libri, in alcuni corsi e conferenze, nelle esposizione come la Biennale veneziana del 1985 o la Mostra del Decostruttivismo del 1988. In questi anni è impossibile definirlo usando canoni tradizionali o barriere delimitate. I luoghi si intrecciano con le esperienze: Milano, Como, New York, Londra. Un approdo, naturalmente, non può essere che Berlino: terra lacerata e vitale, luogo e non luogo del mondo.
Alla metà degli anni ottanta è uno sperimentatore del tutto eccentrico. Realizza una serie di grandi congegni: sono un misto tra un sogno leonardesco e degli apparati di tortura che sembrano usciti da un Kafka o da un de Sade. Si propongono come grandi macchine astratte che echeggiano i temi delle riflessioni di Deleuze. Sono esibite grazie ad Aldo Rossi in Italia, ma ben pochi potevano capire a che cosa poteva portare questa sperimentazione. Libeskind associa a questi congegni dei disegni astratti, una specie di partiture musicali che lavorano sulla forza rappresentata dalla linea. E cioè sulla capacità di rompere, di estendersi, di non racchiudersi nei “piani” della tradizione puramente funzionalista o neoplastica, ma del muoversi della linea nello spazio schizzando, lacerando, zigzagando in uno spazio nuovo.

Le linee creano così dei Micromondi (Micromegas è il titolo di un’altra serie di opere) e un universo di costellazioni e di potenzialità. Linee e macchine astratte gradualmente si calano in architettura e ancora Berlino è il luogo. Realizza una straordinaria proposta per l’IBA berlinese, il City Edge del 1987. È un edificio, naturalmente ad andamento lineare, e multifunzionale nel programma che crea ambiti per la città nell’intreccio tra i corpi e nelle sovrapposizioni delle funzioni. Nel progetto si inserisce contemporaneamente un’interpretazione del concetto di stratificazione e layer che è originale perché se è certamente debitrice del ragionamento di Eisenman sui palinsesti, è anche autonoma. In Libeskind il layer assume una forza drammatica. Non è lo strumento per alcun tipo di ricomposizione, ma è la presentazione del dramma di un mondo che non può e quindi non deve più rimettere insieme i pezzi.
La realtà di Libeskind può essere avvicinata solo come costante interconnessione di processi, di sistemi, di “strati”; sempre più la nostra percezione assomiglia a quella di un mondo lacerato, chirurgicamente ripresentato con le sue parti liberamente, a volte casualmente e spesso drammaticamente sovrapposte.
In questo contesto di ricerca elabora il suo capolavoro, la nuova ala del Museo ebraico di Berlino. Alla metà degli anni novanta un’altra grande prova. La spirale che si avvinghia nello spazio assunta al moto della crescita del sapere e della vita nell’ampliamento del Victoria&Albert Museum a Londra, il tempio delle arti applicate.”

Daniel Libeskind è l’esempio dell’architetto moderno, capace di riassumere in un unico ragionamento più materie e interessi. La sua formazione caratterizzata da una mixitè disciplinare lo rende capace di conoscere luoghi e situazioni differenti e di proporre sempre architetture opportune e simboliche.
La sua poetica si lega molto al concetto di linea e di layer. Nelle sue opere questi sono due temi ricorrenti, dati dal fatto che la linea detta il disegno mentre i layer gli conferiscono carattere. La linea rompe gli schemi, crea spazi nuovi e vaga nello spazio; il layer, con la sua forza drammatica, permette di rappresentare una società basata su strati, sociali ed economici.
Il capolavoro di Libeskind è senza dubbio il Museo Ebraico a Berlino, edificio che comunica in modo dirompente un dramma mai dimenticato. Ma per un’analisi più approfondita ho scelto il progetto di ampliamento del Victoria & Albert Museum perché mi interessava la creazione di un edificio monolitico partendo dalla rotazione geometrica di molteplici parallelepipedi. Questo progetto, mai realizzato, si inserisce in un contesto consolidato e va a relazionarsi con una preesistenza storica attraverso un’idea di movimento e contemporaneità. Il progetto è una spettacolare spirale policentrica.
L’edificio, che si basa sulle infinite possibilità della spirale, è una struttura unica. Non si tratta di una spirale tradizionale con un solo centro e asse, ma di una spirale contemporanea che si apre a una pluralità di direzioni lungo molteplici traiettorie; una spirale policentrica che tende propulsivamente verso un sorprendente zenit. Questo progetto mostra l’approccio unico di Libeskind all’architettura, trasformando quest’ultima in un linguaggio in grado di raccontare la storia dell’animo umano; una forza ibrida e in costante evoluzione. Allo stesso tempo una narrazione, un metodo, una forma d’arte e un modo per interpretare il mondo.

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